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2. LA PERFORMATIVITÀ DEL DIGITALE: LE NUOVE TECNOLOGIE COME FONTE DI ESPERIENZA



2.1 Il concetto di performance applicato alle nuove tecnologie: l’interattività come agire partecipativo nel processo comunicativo


Il discorso che si è precedentemente portato avanti riguardo alla performance come veicolo di riflessione critica e non-luogo di sperimentazione corporea potenzialmente costruttiva, può essere applicato anche all’universo digitale, zona liminare che si è recentemente profilata dinanzi ai nostri occhi (o meglio intorno ai nostri corpi).

L’intervento delle nuove tecnologie ha infatti dato vita all’apertura di nuovi percorsi sperimentativi e di conseguenza si è resa necessaria una ridefinizione delle categorie d’analisi per interpretare l’incontro tra i nuovi linguaggi comunicativi e le forme della loro materialità espressiva, materialità che favorisce la messa in scena partecipativa del nostro corpo.

In questa fase di passaggio da un universo mass-mediatico generalista ad una zona dai confini ancora labili e soggetti a continua ridefinizione, è possibile operare una riscrittura delle modalità di rapporto e di interazione che i media offrono agli utenti stessi.

Attraverso il digitale avviene una commistione fra i vari linguaggi espressivi e l’immagine si smaterializza, mentre il presunto spettatore si fonde con il medium comunicativo ed è messa in discussione la stessa nozione di autorialità, corporeità e identità.

Il concetto di performatività delle nuove tecnologie può essere una pista per operare una costruzione di senso a livello teorico nei confronti dell’agire comunicativo che i nuovi media digitali offrono, e nello stesso tempo può aiutare ad evdenziare la componente di riflessività esperenziale insita nei nuovi media stessi.

La performatività propria dei linguaggi digitali pone in primo piano la componente attiva della comunicazione: la nozione di performance rimanda ad un processo comunicativo che si basa sul gesto, su un fare che si costituisce come premessa e condizione della comunicazione e come contenuto della comunicazione in sé.

"E proprio nella azione/comunicazione della performance, che al tempo stesso destabilizza e costruisce relazioni, poiché di fluide relazioni vive, sta forse la chiave per trovare punti di equilibrio nuovi e mutevoli a partire dai quali disegnare nuove mappe di un territorio - il cyberspazio, ma anche il testo digitale - segnato da appartenenze multiple e da osmosi fra centralità e margini, di un territorio percorso da soglie e da interstizi più che da confini."

L’individuo attraverso il digitale può operare una sperimentazione performativa manipolando e decostruendo i significati e i codici comunicativi, al fine di rifunzionalizzare ogni elemento visivo nei suoi rapporti con il senso complessivo in base al suo personale percorso di senso, costruito non solo interiormente, ma anche esteriormente avvalendosi delle possibilità di interazione che i nuovi media offrono.

La dimensione performativa del linguaggio comunicativo viene quindi avvalorata dalla possibilità di interagire con i media stessi, approdando ad una "fisicità" del comunicare, che si svolge nella costruzione personalizzata di ambienti, reti e spazi di navigazione, da parte dell’utente. Si crea fra il medium e il recettore una "con-fusione", una "con-versazione" che permette di annullare la barriera della spazialità fisica tra il soggetto e l’immagine: l’individuo proietta il suo io nell’artificialità della rappresentazione digitale e conseguentemente lo moltiplica, lo frammenta, lo rende fluttuante.

"La proposta è quella di definire l’interattività come la proprietà di specifici strumenti informatici che consentono all’utente di orientare lo svolgimento delle operazioni, di tappa in tappa e quasi istantaneamente, ovvero in tempo reale.

Si instaura così un tipo di comunicazione tale per cui entrambi i soggetti coinvolti nell’interazione ricoprono alternativamente - nel corso dell’interscambio comunicativo - il ruolo di emittente e recettore. […] L’interscambio comunicativo che si realizza tra emittenti/recettori nell’ambito della comunicazione interattiva si compone, quindi, di azioni reciproche compiute da entrambi gli interlocutori, ognuna delle quali costituisce la premessa dell’azione successiva dell’altro soggetto."

Infatti l’utente della comunicazione digitale assume un nuovo ruolo: egli non è più un semplice recettore in grado di instaurare con il testo una conversazione unicamente di tipo simbolico costruendo un proprio percorso interpretativo di senso come nei media monodirezionali, ma si qualifica come "un agente in grado di iniziare e svolgere delle azioni reali e tali da orientare lo svolgimento dell’interazione in relazione alle proprie necessità e obiettivi. Si tratta di azioni che vanno dalla semplice selezione tra diverse opzioni visualizzate in forma di menu, fino alla possibilità di agire sulle immagini visualizzate sullo schermo manipolandole o contribuendo attivamente alla loro creazione."

Allo stesso modo il testo instaura una con-versazione con il recettore presentando le proprie potenzialità di significazione, esibendo la sua struttura grafica, iconica, sonora e operando una messa in scena dei possibili percorsi di navigabilità: il rapporto con i nuovi media assume connotati dialogici, conversativi, permettendo una costante rinegoziazione delle regole dello scambio comunicativo.

Paolo Vidali in Esperienza e comunicazione nei nuovi media, abbandonando l’idea della possibilità di una comunicazione trasmissiva, in cui avviene una trasmissione lineare di dati, rivendica la componente perturbativa della comunicazione, favorita dall’interattività e quindi più evidente nelle nuove tecnologie informatiche. Quando si interagisce con sistemi e installazioni virtuali nulla garantisce che avvenga una trasmissione: ciò che accade è una perturbazione del medium che dà origine ad un processo comunicativo retroattivo e in cui si instaura una relazione di feedback fra sistema comunicativo ed utente. "Questa perturbazione viene colta ed elaborata all’interno di un sistema informazionale, cioè il partecipante ma anche la stessa installazione che elabora il [suo] movimento. Questa elaborazione avviene riducendo la varietà possibile a seconda delle perturbazioni individuate come segnali, che quindi vengono lette attraverso un codice o un algoritmo di cui si dispone. Questa riduzione produce un cambiamento dello sfondo cognitivo - del partecipante o dell’installazione - : tale cambiamento, elaborato, produce perturbazioni nel medium e così via. L’interazione può essere considerata allora una procedura di costante adattamento al medium, operata attraverso il riconoscimento di perturbazioni come messaggi, attraverso l’impiego di strategie di riduzione della varietà di messaggi, attraverso la produzione di conseguenti perturbazioni nel medium… L’interazione non è quindi una possibile caratteristica della comunicazione, ma la sua struttura propria. I nuovi media non fanno che rendere più visibile questa struttura."

Attraverso l’interattività assunta dai nuovi media, è possibile non solo manipolare l’immagine interattiva, ma anche interrogarla, richiamarla, ricostruirla, dialogare con essa.

In realtà la comunicazione interattiva instaurata con un’immagine digitale (presente nell’interfaccia grafica di un computer, in un’installazione virtuale, ecc.), rimanda per molti aspetti alla comunicazione interpersonale. "Comunicare è compiere una costante riorientazione del proprio mondo, svolgere un’operazione di riorganizzazione cognitiva, autoriprodurre le relazioni che costituiscono il nostro dominio cognitivo, cioè il nostro mondo, cioè l’ambiente che ci circonda […]"

Avviene comunicazione quando il nostro universo cognitivo viene perturbato e di conseguenza per operare un adattamento al nuovo si viene spinti a riorganizzare i propri percorsi di pensiero al fine di provocare nuove perturbazione nell’altro: in questo modo la comunicazione si presenta come un flusso dialogico e bidirezionale, che trasporta tasselli di informazione da una mente all’altra. Ed in questo modo il personale mosaico cognitivo viene momentaneamente smembrato per trovare successivamente una nuova forma.

"Comunica solo chi è cambiato, chi si fa cambiare dall’interazione comunicativa, chi fa esperienza della comunicazione."

I nuovi media, configurandosi come sistemi di potenziale costruzione di processi cognitivi conseguentemente alle interazioni individuali, sono lo specchio della comunicazione come riorientazione del proprio ambiente psicosensoriale e rappresentano il cambiamento che diventa medium. Paolo Vidali nel suo saggio, riporta le parole di Heinz von Foerster, il quale in una sua conferenza sosteneva: "L’informazione è solo il modo in cui si cambia dopo il coinvolgimento con qualcuno". Allora la domanda è: in che modo siamo cambiati dall’interazione e dal coinvolgimento con gli strumenti digitali? Che tipo di esperienze riflessive offre il dialogare con i nuovi media?



2.2 La cultura della simulazione opaca: dialogare con gli strumenti digitali attraverso i dispositivi di interfaccia


Parlando della comunicazione bidirezionale possibile con il computer, assume particolare rilievo la presenza di dispositivi di interfaccia uomo-macchina che consentono ad utente e sistema di entrare in comunicazione in tempo reale instaurando un "rapporto conversazionale" (e non solo). Grazie ai dispositivi di interfaccia l’utente può "dialogare" con il terminale e quindi sfruttare le potenzialità interattive proprie del sistema. In più l’utente di un sistema interattivo può "interfacciarsi" con le immagini e i testi visualizzati sullo schermo instaurando un rapporto fisico e corporeo con i significanti, modificandone l’articolazione spazio-temporale, attraverso il gesto sulla tastiera, sul mouse o direttamente sullo schermo.

A proposito è molto interessante l’analisi della "antropologa del cyberspazio" Sherry Turkle, la cui ipotesi teorica è: "Abbiamo imparato a giudicare le cose secondo il valore dell’interfaccia. Ci stiamo spostando verso una cultura della simulazione dove le persone si sentono sempre più a proprio agio nel sostituire le rappresentazioni alla realtà. Usiamo tranquillamente la scrivania stile Macintosh così come quella fisica su quattro zampe. Entriamo a far parte di comunità virtuali che esistono solo in virtù di quanti comunicano via computer così come di comunità in cui siamo presenti fisicamente. Mettiamo in dubbio perfino le più semplici distinzioni fra reale e artificiale. Perché mai la scrivania sullo schermo dovrebbe essere meno reale di quella materiale? […] La cultura della simulazione mi spinge a considerare quel che vedo sullo schermo secondo il valore dell’(inter)faccia."

Nello spostamento verso una cultura della simulazione, il computer diventa un oggetto evocativo che provoca la rinegoziazione dei vecchi confini, fra cui anche l’idea stessa della comunicazione interpersonale e il concetto di relazioni sociali.

Nel termine stesso "simulazione" si riscontra una evidente ambivalenza semantica: da una parte simulare significa illudere, ingannare, dall’altra significa riprodurre, imitare. La simulazione dà vita ad una realtà che riproduce ed imita quella sensibile e nello stesso tempo la rende evanescente, immateriale ed artificiale. Secondo Umberto Eco "segno è tutto quello che può essere usato per mentire" (1975) e nella comunicazione digitale questo aspetto di ingannevole referenzialità trova un’applicazione concreta. L’inganno comunque non è sempre recepito come tale e anzi, le perturbazioni che i segni digitali provocano in noi, sono spesso paragonabili a quelle che la stessa comunicazione interpersonale determina. Secondo Stefania Garassini e Barbara Gasparini "ogni linguaggio simula, cioè costruisce un modello della realtà di cui intende parlare e tale modello può anche non corrispondere all’oggetto al quale si riferisce. Proprio perché ogni linguaggio per descrivere la realtà, deve distaccarsene e simularla, sono possibili la menzogna e l’inganno, che non sarebbero evidentemente configurabili in una prospettiva di totale determinismo e di forzata referenzialità."

Con questo si vuole rendere chiaro che la componente di finzione ha accompagnato da sempre non solo la comunicazione mediatica che ha circuito la nostra sfera cognitiva con i suoi simulacri, ma anche i processi stessi del comunicare, che presentano sempre aspetti relativistici e aleatori. Con i media tecnologici il processo di "menzogna comunicativa" si è acuito e paradossalmente tutto questo è avvenuto conseguentemente all’aumentare progressivo della perdita di referenzialità dell’immagine comunicativa. Con la fotografia ed il cinema è ancora in parte evidente il rapporto con il referente oggettuale concreto (dico in parte perché spesso alcuni scenari cinematografici o determinate immagini fotografiche sono ricostruite artificialmente), mentre con la televisione la referenzialità subisce un ulteriore slittamento verso la simulacralità dell’immagine.

"L’immagine televisiva, costruita da un insieme di linee e di punti, generati dallo choc prodotti dal fascio di elettroni sulle particelle di fosforo che rivestono la parete interna dello schermo, deriva da un processo di distruzione e di rigenerazione continue. Si tratta quindi di un’immagine che, diversamente da quella cinematografica, non può essere considerata come un’impronta fisica di un oggetto preesistente, poiché nasce da un processo di astrazione-costruzione molto forte."

Con gli strumenti digitali si accresce l’indipendenza rispetto al referente oggettuale e di conseguenza è anche più facile eseguire performance creative manipolando le immagini visuali (anche se comunque questo avveniva già con la videoarte). Con il digitale è possibile rielaborare e trattare l’immagine allontanando la rappresentazione dal determinismo realistico: quindi, in un certo senso, la simulazione, nell’abbandono di qualsiasi legame analogico con l’immagine originale, permette la creazione di un reale alternativo che, nel suo inganno iconico, può facilitare la sperimentazione critica e riflessiva (la metasperimentazione) sui codici comunicativi e sulla stessa materialità concreta.

Bettetini afferma che l’intento della simulazione sensoriale operata dai nuovi media digitali è quello di "produrre un significante materiale che possa rinviare…a un progetto o a un modello o a un’icona capace di sollecitare impatti percettivi analoghi a quelli prodotti dalle forme referenziali - nel caso in cui esistano - o comunque credibili e utilizzabili in virtù della loro verosimiglianza e della loro adeguatezza all’istanza che ha dato origine alla specifica produzione di senso."

Siamo quindi di fronte ad un tentativo di trasmettere verosimiglianza attraverso l’inverosimile ed il fantasmatico. E’ infatti questa illusione di verosimiglianza che permette lo svolgersi dei processi comunicativi interattivi o meglio delle perturbazioni comunicative. Invece la disillusione (o il vivere l’illusione fantasmatica in modo ragionato e consapevole) può dare origine alla riflessività critica sui mezzi comunicativi e sulla stessa azione comunicativa. Però per esserci la disillusione, prima ci deve essere l’illusione.

L’illusione è provocata dalla facilità d’interazione con le interfacce digitali che celano le complicate strutture delle apparecchiature meccaniche sottostanti (l’hardware) e che nascondono anche le complesse procedure d’esecuzione algoritmiche di ideazione di determinati software: il tutto poi è accresciuto dalla paradossale semplicità del linguaggio binario (il sistema codificato su cui si basa la possibilità di fornire istruzioni ai computer). Questa opacità dei sistemi digitali interattivi crea degli effetti di realtà conseguenti alla progressiva naturalizzazione delle interfacce e la simulazione comportamentale di un interlocutore reale o di un ambiente.

A proposito Sherry Turkle sostiene: "Ci siamo abituati alla tecnologia opaca. La potenza operativa del computer aumenta in modo esponenziale, una potenza che oggi è possibile utilizzare per realizzare delle particolari interfacce grafiche in grado di nascondere la nuda macchina agli occhi di chi la usa. Le nuove interfacce opache - più specificamente, lo stile a icone tipico dell’interfaccia del Macintosh, in grado di simulare sia l’area di una scrivania da lavoro sia la comunicazione grazie alle finestre di dialogo - hanno rappresentato ben più di un semplice cambiamento tecnico. Hanno realizzato un modello per la comprensione basato sul fatto che per conoscere il computer occorresse interagire con esso, proprio come quando si conosce una persona o si esplora una città."

Quando nel 1984 fu lanciato lo stile a icone del Macintosh, l’utente cominciò a doversi rapportare a delle simulazioni (le icone delle cartelle, la scrivania, il cestino del materiale rifiutato, ecc.), che esibivano superficialmente le potenzialità della macchina e le possibili vie con cui interfacciarsi, non offrendo però alcun suggerimento su come poter riconoscere la struttura sottostante (ecco appunto l’opacità della tecnologia informatica).

Al contrario i primi personal computer degli anni ’70 e il PC dell’IBM dei primi anni ’80, erano concepiti come dei sistemi per così dire "trasparenti", che incoraggiavano gli utilizzatori a rappresentare la propria comprensione della tecnologia come conoscenza di quel che esisteva oltre il livello superficiale offerto dallo schermo

Anche se poi in realtà pochi hanno raggiunto un tale livello di comprensione, le prime macchine informatiche erano strutturate in modo da essere comprese fino ai loro livelli più semplici evidenziando i meccanismi nascosti che fanno funzionare le cose: "si trattava di sistemi che invitavano l’utente a immaginare che ne avrebbero potuto comprendere le ‘marce’ mentre andavano" (S.Turkle).

A proposito Turkle parla di estetica computazionale modernista: "L’immagine del computer come calcolatore suggeriva che, ben oltre la sua apparente complessità, quel che accadeva al suo interno poteva essere meccanicamente scompattato, sezionato.[…] In altri termini, le idee computazionali venivano presentate come una delle grandi meta-narrazioni moderne, storie di come il mondo fosse in grado di fornire immagini unificanti e di analizzare cose complicate riducendole in pezzi più semplici. L’estetica computazionale modernista prometteva di spiegare e scompattare, di ridurre e chiarire."

Attraverso la cultura della simulazione si è invece approdati all’estetica postmoderna della complessità e della decentralizzazione. Paradossalmente si ricerca nel computer un tipo di trasparenza attivata dall’opacità e dalla complessità, rimanendo al livello superficiale della rappresentazione visuale, ma con il desiderio di esplorare e manipolare attraenti mondi di superficie a seconda dei nostri bisogni personali. Il computer diviene lo specchio della nostra soggettività: "Ci si rivolge esplicitamente al computer per esperienze che si spera risultino capaci di modificare il nostro modo di vedere o di influenzare le nostre vite sociali ed emotive. Quando ci si avventura in giochi di ruolo o in mondi di fantasia, oppure quando si raggiunge una comunità per incontrarvi amici e amanti virtuali, non si pensa più al computer come quella cosa che Charles Babbage, il matematico del secolo scorso inventore della prima macchina programmabile, definì motore analitico. Si va scoprendo il computer come macchina per l’intimità.

La novità del Macintosh stava dunque nella possibilità di manipolare l’interfaccia di superficie dello schermo senza essere esperti informatici. L’interfaccia del Macintosh appariva come una scrivania virtuale e poteva rispecchiare sullo schermo i movimenti degli utlizzatori grazie alla presenza di un cursore mobile (una freccetta di solito) e non si presentava come un’interfaccia logica, manipolabile con comandi lineari e testuali (si pensi al sistema CP/M dell’Apple II degli ultimi anni ’70 o al più recente MS-DOS). Invitava ad un rapporto con il computer meno analitico e razionale, basato sulla gestualità immediata, permettendo un vero e proprio dialogo con la macchina e riducendo la sensazione di impartire degli ordini a qualcosa, tipica del linguaggio informatico logico a stringhe di comandi.

Parlando della scrivania simulata del Macintosh, Sherry Turkle sostiene: "Gli oggetti interattivi della scrivania, le finestre di dialogo antropomorfizzate dove il computer ‘parlava’ con chi lo stesse usando, tutte queste novità spingevano verso un nuovo tipo di esperienza, in cui la gente, anziché dare ordini alla macchina, conversava con essa. Si veniva incoraggiati a interagire con la tecnologia quasi allo stesso modo in cui si interagiva con gli esseri umani. Noi siamo soliti proiettare negli altri la complessità: il progetto del Macintosh incoraggiava la proiezione della complessità nella macchina. Nei rapporti con la gente spesso dobbiamo fare delle cose senza necessariamente comprendere quel che avviene negli altri, allo stesso modo con il Macintosh abbiamo imparato a negoziare anziché analizzare."

L’interfaccia grafica del Mac si presentava come un mondo da esplorare, imparando e divertendosi allo stesso tempo e per approdare agli interstizi di questo mondo, non sembrava più necessario aprire la macchina e guardarvi dentro alla ricerca delle origini e delle strutture dei suoi meccanismi, ma bastava navigare all’interno della sua superficie.

Il Macintosh divenne più trasparente perché facile da manipolare. Quindi anche l’idea stessa di trasparenza ha subito uno slittamento con l’emergere della cultura della simulazione: trasparente non è ciò che può essere ricostruito analiticamente a partire dalla scomposizione delle sue strutture interne, ma è ciò che può essere esplorato con facilità interagendo con icone attraenti ed intuitivamente interpretabili.



2.3 La cultura del bricolage: vivere esperienze reali agendo in universi virtuali


Nel passaggio dalla cultura analitica e della programmazione dall’alto verso il basso propria dello stile moderno di fine anni ’70 alla più postmoderna cultura della simulazione degli anni ‘90, si assiste ad una trasformazione del modo di rapportarsi agli elementi comunicativi e subisce una mutazione lo stesso modo di interagire cognitivamente con un testo.

Si tende ad interagire con gli strumenti informatici come se si esplorasse dei mondi, procedendo per continue manipolazioni e riscritture del testo iconico, che assume quindi forma sullo schermo in base alle nostre personali connessioni mentali (questi processi sono ancora più evidenti negli ipertesti del World Wide Web).

Questa costruzione testuale personalizzata, viene definita da Sherry Turkle tecnica del bricolage, che bene rappresenta i percorsi cognitivi che si è soliti attraversare interagendo con strumenti digitali come il computer e che spiega come l’esperienza interattiva con le macchine possa dare vita a nuovi modelli di pensiero. In questo senso si può affermare che le macchine creano coscienza. Cosa si intende per cultura del bricolage?

"Il termine bricolage era usato da Claude Lévi-Strauss in opposizione al metodo analitico della scienza occidentale, per indicare la scienza associativa del concreto praticata da numerose società non-occidentali. Il curandero-erborista della tribù, ad esempio, non seguiva ragionamenti astratti bensì affrontava un problema dopo l’altro utilizzando materiali a portata di mano. Analogamente, coloro che, nella soluzione di un problema, non procedono secondo un progetto dall’alto verso il basso ma piuttosto arrangiano e riarrangiano un insieme di materiali ben conosciuti, possono essere considerati come praticanti del bricolage. Si tende cioè ad usare un elemento, fare un passo indietro, riconsiderare la situazione e provarne un altro. Per chi è solito pianificare, ogni errore è un passo nella direzione sbagliata, mentre coloro che usano il bricolage navigano attraverso correzioni continue. L’approccio alla soluzione del problema presuppone da parte loro una crescita della relazione con il materiale di lavoro, che rivesta più il gusto di una conversazione anziché quello di un monologo.

A questo punto il paragone con la cultura sperimentativa della simulazione risulta evidente:

"Oggi, il fatto di giocare con le simulazioni stimola le persone a sviluppare capacità di manovra più informali, perché è ormai facile creare scenari da ‘Cosa accadrebbe se…?’ e giocare con ciò che ne esce.

La rivalutazione del bricolage nella cultura della simulazione comprende un’enfasi nuova sulla visualizzazione e lo sviluppo dell’intuizione attraverso la manipolazione di oggetti virtuali. Invece di essere costretti a seguire un’insieme di regole stabilite in anticipo, quanti usano il computer vengono incoraggiati a giocare in micromondi simulati. E’ qui che si impara il funzionamento delle cose, mentre vi si interagisce."

Mentre negli anni ’70 e ’80 utilizzare il computer secondo la tecnica del bricolage era pratica propria di alcune frange non ufficiali ed alternative rispetto alla cultura informatica istituzionalizzata (si pensi alle pratiche degli hacker che si dilettavano con l’imperfetto esplorando e mettendo alla prova i confini liminari degli strumenti informatici), negli anni ’90 sempre più persone si sono avvicinati alla "logica della sperimentazione manipolatrice".

All’utente è concesso di interagire in modo diretto con il testo visuale, mutandolo conseguentemente alle proprie possibilità alternative di pensiero.

Sherry Turkle al riguardo parla dell’emergere di una nuova "cultura musicale": dalla pratica dura del martello tipica di uno stile di pensiero analitico e sottoposto a rigide regole associative, si slitta verso la manipolazione creativa e concreta degli elementi comunicativi che ricorda il pizzicare le corde dell’arpa. La cultura del personal computer dà vita a modi di comprensione dipendenti dalla "manipolazione concreta" di oggetti virtuali, e costruiti in base alle performance gestuali permesse dalle applicazioni informatiche interattive.

Esplorare i mondi digitali significa quindi "sporcarsi le mani" con gli oggetti che li popolano, lavorando in tempo reale con ciò che appare visibile nella zona di superficie.

Ma in che senso si vivono esperienze reali interagendo con queste icone immateriali?



2.4 Il digitale come metacommento cognitivo e percettivo: pratiche corporee liminali per operare una riflessione critica sul reale


Soprattutto nella prima metà degli anni ’90 era consueto nel panorama mediatico l’accenno alle esperienze totalizzanti ed immersive possibili con i dispositivi di Realtà Virtuale (VR).

Si diceva che si poteva vivere esperienze coorporee immersive percependo le stesse sensazioni avvertite nel mondo reale in contesti simili.

In realtà tali esperienze, come quelle realizzabili con qualsiasi altro tipo di strumento digitale che renda possibile l’interazione uomo-macchina, fanno uso del corpo ma non sono prettamente corporee. Queste esperienze agiscono notevolmente a livello cognitivo, pur essendo esperienze psicomotorie, poiché pure se spesso vogliono stimolare il percepire, lo fanno sempre in termini di simulazione, una simulazione che ha essenzialmente carattere riflessivo e che quindi ha come finalità il percepire le nostre modalità di percezione.

Quindi non offrono un contatto reale e concreto con delle entità fisiche, ma con dei simulacri virtuali di esse e in questo senso costituiscono una simulazione di esperienze, ci fanno riflettere sulle nostre capacità psicofisiche di comunicare con il mondo esterno.

Infatti quando si interagisce con icone presenti in una schermata di un computer oppure con oggetti virtuali di un ambiente di Realtà Virtuale, cosa toccano le nostre dita e cosa avverte il nostro corpo? Non c’è assolutamente il contatto diretto con l’oggetto fisico in sé, ma con una sua rappresentazione, un’illusione fantasmatica della sua essenza. Il contatto poi è mediato da elementi come il mouse, lo schermo, il guanto di VR.

Anche quando si simula la sensazione tattile, mediante sensori, quello che si avverte non è la pesantezza, il calore, la ruvidità dell’oggetto in sé, ma di una sua simulazione (difficilmente poi si raggiunge una raffinatezza tecnica tale da permettere questo).

Il corpo diventa un mezzo per l’interazione, ma non è il fine. In effetti se tutte le applicazioni interattive avessero come unico scopo quello di far vivere esperienze coorporee verosimili il fallimento sarebbe inevitabile, pur con la maggiore elasticità mentale e la disponibilità a considerare le cose secondo il valore dell’interfaccia di chi ragiona in termini di cultura della simulazione.

Secondo questo filo logico infatti non si può spacciare per reale un’esperienza che di reale (considerando il reale nella sua oggettificazione concreta) non ha nulla.

Ma allora dove sta la realtà dell’esperienza? Di che esperienza si sta parlando?

A proposito si può considerare la risposta che dà Paolo Vidali in Esperienza e comunicazione nei nuovi media riferendosi alle esperienze di realtà virtuale:

"Ciò che si percepisce non è un mondo, ma la propria interazione con un mondo. L’effige del proprio corpo che si muove in uno spazio artificiale a fisica variabile accentua ed evidenzia ciò che accade in modo ormai inconsapevole nell’interazione oridinaria. Non incontriamo mai un mondo, ma un rapporto con il mondo. L’esperienza non è delle cose ma dell’interazione con le cose. L’ordinarietà delle nostre esperienze oscura questo rapporto, lo stabilizza, fino a fonderlo nell’oggetto. Occorre violare la normalità fisica, metrica topologica del nostro mondo perché venga di nuovo in luce la relazione che costantemente intratteniamo con esso. La VR mostra quello che l’ordinario non sa più mostrare: la costruttività della nostra esperienza del mondo."

Questo significa che gli ambienti virtuali non vogliono offrire l’esperienza della realtà, ma del rapporto con la realtà. Ci si confronta con universi formati da immagini di sintesi che presuppongono una sempre crescente conoscenza del "reale", sia per riprodurlo con modelli iconici che per simulare le interazioni comunicative possibili al suo interno, e che presentano paradossalmente una sempre maggiore dissoluzione del reale, sostituito dal modello e in senso generale dal linguaggio informatico.

Le immagini sintetiche sono creazioni fantasmatiche e alle loro spalle non vi è alcun referente dato, alcun reale ripreso, come accadeva invece con la fotografia, il cinema e la televisione. "La dissoluzione del referente ha spostato l’attenzione dalla referenzialità dell’oggetto all’interazione fra ambiente e soggetto" (P.Vidali).

L’esperienza possibile con i nuovi media ha quindi un carattere riflessivo: si può dire che sia un metacommento sulla nostra facoltà di percepire e di interagire.

"L’oggetto infografico è un oggetto virtuale, il che significa che anche la sua materialità deve essere costruita e simulata. Ma ciò comporta sia la conoscenza che l’abbandono dei vincoli della nostra esperienza percettiva ordinaria. Con l’infografica si dimensiona l’immagine e il centro percettivo su qualunque scala, dal piano molecolare a quello galattico; si superano e si trasformano tutti i limiti che segnano la nostra abituale postazione nello spazio reale: e sono limiti ambientali, coordinate spazio-temporali, elasticità, meccanica e dinamica, strutture percettive…, tutti vincoli che contrassegnano ciò che chiamiamo realtà distinguendola da un immaginario senza verità. […] In questo modo l’immagine di sintesi cancella dei vincoli che la nostra percezione ordinaria non sapeva più di avere: ma nel far questo, di fatto, li evidenzia."

Colui che interagisce con questi mondi è quindi invitato a ridiscutere sia il proprio rapporto cognitivo con il mondo, imparando a ragionare in termini di possibilità da sperimentare nell’immediato secondo una logica combinatoria, sia il proprio rapporto percettivo con il mondo, riplasmando le regole ordinarie che permettono tale rapporto nel concreto.

La realtà virtualizzata è quindi uno stimolo per riflettere sull’interazione comunicativa e può aiutarci a divenire coscienti della nostra stessa percezione.

Il veicolo principale per vivere tali pratiche riflessive è il nostro corpo e la sua messa in scena performativa e quindi l’interagire con universi digitali si connota di una certa fisicità (pur nella virtualità degli scenari) poiché senza l’azione manipolatrice del corpo non sarebbe possibile vivere determinate esperienze, però il senso ultimo di queste interazioni, se vogliono essere realmente critiche e riflessive, non si ferma a questo. Il punto nodale è partire dalle pratiche corporee in ambienti virtuali (con questo non escludo l’interfacciarsi con il personal computer) per operare una decostruzione critica dei meccanismi comunicativi, percettivi, relazionali e sociali in generale. In questo senso si parla di pratiche reali anche se in realtà il tutto avviene in un contesto virtuale e non oggettualmente concreto. Inoltre poi questa sensazione di aver vissuto esperienze reali è accreditata dal fatto che il sistema con cui ci si interfaccia rimane perturbato dall’azione del nostro corpo-mente e conserva in sé le tracce del nostro passaggio e dello scambio comunicativo stesso. Queste tracce vengono percepite come reali anche se sono virtuali, poiché in effetti la relazione trasformatrice di feedback sistema-utente è avvenuta e il nostro sistema cognitivo, come l’interfaccia del sistema con cui abbiamo interagito, ha subito una mutazione.

Le pratiche digitali si collocano quindi in una zona liminale fra sensorialità ed intelletto, in cui si mettono in gioco i sensi smaterializzandoli e si riorganizzano le nostre facoltà cognitive e percettive: il tutto avviene in un contesto di confine, in un non-luogo in cui si frammentano e si invertono le modalità percettive e i canoni socio-culturali e si riorganizzano in un contesto fortemente ludico.

In questo è evidente il carattere di sperimentazione performativa tipica dei generi liminoidi: si gioca con i fattori della cultura, combinandoli in modo sperimentale e spesso grottesco, secondo parametri improbabili, inusuali e spiazzanti, operando una scomposizione libera degli immaginari collettivi e nello stesso tempo riflettendo sullo status quo.

Appare quindi chiaro come si può imparare attraverso il disordine e come è possibile creare il nuovo attraverso la stimolazione del nostro corpo-mente in ambienti liminali e oltre la soglia. Il fatto che tutto questo avvenga spesso in un contesto ludico merita un’ulteriore riflessione.



2.5 Il gioco come esperienza di confine: la simulazione nei videogiochi


Marshall McLuhan in Giochi - le estensioni dell’uomo, dà una rispondente descrizione del gioco come veicolo di nuove esperienze culturali, paragonandolo anche all’espressione artistica:

"Qualunque gioco, come qualunque medium d’informazione, è un’estensione dell’individuo o del gruppo. I suoi effetti sul gruppo o sull’individuo consistono nel dare una nuova configurazione a quelle parti del gruppo o dell’individuo che non sono state estese. Un’opera d’arte non ha esistenza né funzione se non nei suoi effetti sugli uomini che la contemplano. E l’arte, come i giochi o arti popolari, e come i media di comunicazione, ha il potere di imporre i propri presupposti stabilendo nuovi rapporti e nuove posizioni nella comunità umana. L’arte, come i giochi, è un mezzo per trasporre esperienze. Ciò che abbiamo già visto o sentito in una certa situazione lo riceviamo improvvisamente in un materiale di tipo nuovo. Nello stesso modo i giochi trasformano in forme nuove esperienze consuete. […] Se infine dovessimo chiederci: ‘I giochi sono dei mass-media?’ la risposta dovrebbe essere affermativa. I giochi sono situazioni escogitate per permettere la partecipazione simultanea di molte persone a qualche schema significante delle loro vite collettive."

Nell’interazione con i nuovi media la componente ludica si presenta come un fattore di rilievo. Ed è proprio attraverso il gioco che è possibile operare un’estensione delle nostre facoltà percettive e comunicative, dando una collocazione inusuale al nostro rapportarsi al mondo. In questo senso i nuovi media diventano una protesi simulacrale delle nostre concezioni del reale e permettono di ridiscutere i canoni sociali e culturali a cui siamo abituati, favorendo l’adattamento a nuovi immaginari collettivi. Lo stesso avviene rapportandosi a determinate forme d’arte d’avanguardia che operano un connubio fra arte e vita.

Sul finire degli anni ’70 i videogiochi consentirono alla cultura informatica di entrare nella vita quotidiana. Ci si poteva misurare con universi in cui si poteva agire al di là delle costrizioni della realtà fisica, interagendo con icone immateriali che era possibile muovere e plasmare conseguentemente ai propri movimenti nella realtà virtuale.

Seguendo l’evoluzione dei videogame è possibile rendersi conto di come sia avvenuto il passaggio da uno stile di pensiero tipico dell’estetica moderna a quello proprio della cultura del bricolage, tipico dell’estetica della simulazione. In questo caso risultano ancor più chiare le considerazioni di McLuhan riguardo alla capacità dei giochi di essere veicolo di nuove culture ed estensione di nuovi rapporti e nuove posizioni nella comunità umana.

"I primi videogame come Asteroids, Space Invaders e PacMan, trasportavano chi giocava in micro-mondi computerizzati dove le regole erano chiare e precise. Conoscere un gioco richiedeva la decifrazione della sua logica, la comprensione dell’etica di chi l’aveva progettato e il raggiungimento di una comunione mentale con il programma dietro di esso. Chi giocava scopriva il concetto di programma quando iniziava a studiare le regole al di là dei primi micro-mondi che era in grado di controllare. Poiché erano relativamente semplici, ci si poteva facilmente misurare con loro. Alcuni giocatori riuscivano perfino a meditarci su, dato che con la pratica le regole diventano semi-automatiche, e, per avere successo, occorreva raggiungere uno stato mentale in cui ci si lasciava alle spalle il mondo reale. In questo senso, i primi videogame erano oggetti di transizione; avevano quel certo tipo di trasparenza che forniva loro un’estetica moderna, ma ciò che richiedevano ai giocatori per vivere nei loro spazi ludici anticipava i requisiti psicologici propri della cultura della simulazione."

Con il passare degli anni i videogiochi sono divenuti sempre più interattivi ed immersivi. Ci si ritrova spesso nella condizione di dover esplorare un mondo fatto di icone in cui bisogna seguire un certo percorso finalizzato allo svelamento di certi "segreti". Non è più indispensabile conoscere certe regole di partenza per poter giocare, ma l’obiettivo principale diviene l’esplorare, il calarsi in determinate realtà che vengono comprese con l’interazione diretta, provando e ridiscutendo determinati meccanismi, secondo la logica del bricolage.

Alcuni di loro costituiscono dei veri e propri mondi simulati (si pensi alla serie dei videogiochi Sim, come SimCity e SimLife) e rispecchiano l’idea che per comprendere il funzionamento di certi meccanismi non bisogna leggere manuali, ma bisogna interagire con i mondi stessi, abitandoli. Questo ricorda l’opacità dell’interfaccia iconica del Macintosh e la personalizzazione della sua scrivania virtuale da parte degli utenti. Il tutto è molto chiaro nella descrizione del videogioco Myst effettuata da Sherry Turkle:

"Uno dei giochi narrativi più noti è Myst. Le immagini ed i suoni di un CD-ROM vi danno il benvenuto su un’isola deserta e surreale. Per muoversi al suo interno basta spostare il mouse ovunque la vostra presenza virtuale sullo schermo scelga di andare. Quando incontrate un oggetto che vi interessa, puntate il mouse per aprirlo o metterlo alla prova. Si scoprono frammenti di libri, stanze segrete e mappe misteriose che aiutano ad aprire antichi sarcofagi. Nonostante esistano molti percorsi possibili che consentono a chi gioca di risolvere con facilità i misteri che si incontrano durante gli spostamenti, la gente che gioca a Myst con più avidità è felice di trascorrere molte ore (per alcuni, varie centinaia di ore) girovagando nel gioco senza alcuna regola. Come in altre simulazioni opache, la superficie del gioco ha la precedenza su quel che si trova di sotto. […] L’unico manuale che accompagna il gioco è un diario bianco dove riportare la vita su Myst. Sulla prima pagina del diario c’è scritto: ‘Immagina la tua mente come una lavagna pulita, come le pagine di questo diario. Devi far sì che Myst diventi il tuo mondo.’ "

Di fronte alla schermata di un videogioco bisogna azzerare la mente e lasciarsi trasportare dal flusso dell’illusione fantasmatica. Pur muovendosi in una realtà simulata e non percependo alcuna sensazione fisica verosimile, si tende a rimanere molto coinvolti psicologicamente vivendo determinate avventure, combattendo certi nemici e cercando di risolvere sofisticati rompicapo. In questo senso le esperienze dei nostri doppi virtuali possono essere fortemente didattiche e formative, vere e proprie operazioni di socializzazione. Chiaramente per far avvenire questo bisogna abbandonarsi all’illusione, ma si possono riscontrare effetti a livello cognitivo e relazionale che non sono affatto secondari e vanno a toccare il nostro modo di relazionarci con l’altro, con il nostro Sè e con il reale stesso, provocando anche mutamenti nella nostra concezione di identità.

"Nei mondi mediati dal computer, il sé è multiplo, fluido, e costruito dall’interazione dei collegamenti con la macchina, è costruito e trasformato dal linguaggio; l’incontro sessuale è uno scambio di significanti; e la comprensione arriva dalla navigazione e dall’armeggiamento in giro piuttosto che dall’analisi."

Negli universi virtuali si può essere maschi o femmine, cose o persone, macchine o uomini.

Questo processo è ancor più evidente nella Rete, in cui ci si può presentare con un nickname immaginario, che garantisca l’anonimato o fornisca l’identità sessuale desiderata. Per di più in Rete è possibile vivere virtualmente in veri e propri mondi simulati (i MUD, Multi-User Domains, Domini a più utenti) in cui ci si identifica con un proprio doppio virtuale e si può interagire e vivere esperienze con altre creature artificiali, dietro a cui possono esserci altri individui che prendono parte al gioco e di cui non si conosce la reale identità (possono essere anche frutto del programma del computer). Lo stesso avviene in modo meno immersivo nelle chat, newsgroup e mailing-list in cui si può approfittare del fatto che con la scrittura digitale non esiste più l’originale e si può impersonificare chi si desidera.

Anche in questo caso la realtà simulata può far riflettere sulla realtà ordinaria: la frammentazione dell’identità nel MUD o in Rete non è altro che la metafora del nostro Sé parcellizzato nei diversi ruoli che si sperimentano nella vita quotidiana, con la sostanziale differenza che nel virtuale esiste una possibilità di scelta e non si è costretti a vivere l’appartenenza sociale come una catena costringente. Anzi si può giocare con l’identità e approdare ad una maggiore elasticità mentale, scomponendo le gerarchie socioculturali che ancora esistono e gravano nel reale.

Gli universi virtuali e soprattutto quelli in cui è possibile giocare con le regole ordinarie inventandone di nuove non più sottoposte a parametri di tipo classificatorio, possono quindi essere considerati luoghi liminali e di confine in cui si sperimenta il nuovo attraverso performance di corpi virtuali.

I videogiochi rispecchiano poi il dualismo che caratterizza le nuove tecnologie: da una parte personalizzano la fruizione del medium, poiché ci vedono attori solitari nel contesto comunicativo, che viene orientato a seconda delle nostre esigenze ed esperienze individuali, dall’altro sono portavoci di un immaginario collettivo che trova la sua esemplificazione nel connubio uomo-macchina e che rende evidente il carattere di protesizzazione corporea delle nuove tecnologie. Alberto Abruzzese nel paragrafo riguardante i videogames all’interno del saggio L’immaginario tecnologico, sostiene:

"Il rapporto individuo-spettacolo, ritorna a fondarsi su una forma di consumo solitario. Ma solo apparentemente, perché la macchina garantisce all’individuo la possibilità d’essere un terminale dell’immaginario tecnologico di cui, in quel preciso momento, quell’individuo singolo e quella singola macchina costituiscono un elemento di produzione energetica. […]

Quindi risulta fuorviante concepire i videogames (e così pure ogni altro attrezzo regolamentatore dell’individuo) come fattori che intervengono sulla società per limitarne la libertà ed accrescerne l’alienazione, perché è esattamente il contrario; il dispositivo ludico elettronico non è altro che l’emergere (in un punto e secondo una forma specifica) della sintesi sociale di una cultura, così come un tempo poteva essere per il gioco della palla o per la corsa."

Ha qui un’ulteriore conferma l’idea che vede il gioco come un medium estensore degli immaginari di un gruppo e come veicolo di nuove concezioni del reale. Lo dimostrano anche le riflessioni successive di Alberto Abruzzese:

"L’uso dei videogames definisce il rapporto tra individuo e tecnologia come sublimazione corporale (estasi) della circolarità piena e produttiva tra libertà di scelta e comando. Con una veggenza pari a quella della grande arte i videogames sono i clamorosi prototipi dell’immagine del futuro come proiezione del presente: un mondo ciberneticamente controllato in cui accettazione e negazione, iniziativa individuale e conformismo, genialità e specializzazione, energia fisica e ipersensibilità nevrotica, desiderio e frigidità, sono dati assunti nel calcolo delle probabilità di un sistema di impulsi e sono forze necessarie al funzionamento della macchina umana (non conta più parlare di umanizzazione). L’indice spettacolare consiste nella rappresentazione grafica del lavoro compiuto dalla macchina: si accendono e spengono luci; si compongono e scompongono figure e numeri; emergono i simboli delle culture ‘sommerse’ dal tempo e dalla massa. Il singolo che gioca al videogame riesce così ad essere parte integrata ed integrante dell’immaginario collettivo […].

A questo punto è necessario riflettere più a lungo su queste due componenti principali che caratterizzano la fruizione dei nuovi media: la personalizzazione delle icone collettive possibile con gli strumenti digitali e il fatto di essere comunque derivazione e veicolo di immaginari collettivi, che riguardano soprattutto il connubio uomo-macchina e quindi le conseguenti forme di corporeità che è possibile assumere con l’interazione digitale.

In questo senso risulterà ancor più chiara l’idea di performatività delle nuove tecnologie, vista come messa in scena di pratiche corporee smaterializzate e virtuali.

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