Date: Sat, 8 Nov 1997 23:19:08 +0100

To: arti-party@breton.dada.it

From: Tommaso Tozzi <T.Tozzi@ecn.org>

Subject: Re: from Gallarate ahead ...

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Ciao,

 

Carlo Giovannella ha scritto:

 

>a) prendo atto che Tommaso ed io siamo in disaccordo sul significato delle terminologie artista/autore; ho chiesto di darmi una definizione convincente del termine 'artista' e non mi e' stata data: pazienza! Su una cosa concordiamo: tutti sono in vari modi e a vari livelli autori.

 

Lo zingarelli definisce autore: "chi da origine, genera, muove, promuove e sim.", "chi ha creato un'opera letteraria, artistica, scientifica" e si sente in dovere di specificare il "diritto d'autore": "diritto morale e patrimoniale spettante all'autore sulle opere...". Sempre lo zingarelli definisce artista: "chi opera nel campo dell'arte"...

 

Nel termine autore c'e' un'implicita idea di "originalita'" nella "creazione" che, secondo le definizioni dello zingarelli, e' molto meno presente nel termine artista. Sebbene di solito non dia credito ai vocabolari, in questo caso mi sembra che involontariamente instradano verso un'idea del fare artistico partecipativo e collettivo. Se si intende in tal modo il fare arte, volendo usare il termine autore si e' costretti ad abbinarvi il termine collettivo (autore collettivo). Quello che io vorrei invece e' che il fare arte sia identificato in un processo collettivo che si inserisce in una linea di continuita' (evolutiva) con il passato e con il futuro. In tal senso il termine artista automaticamente definisce colui che opera all'interno di un fare collettivo e partecipativo: coevolutivo. Ribadisco, come gia' avevo scritto, che non ho nessuna intenzione di "regalare" l'arte (e la sua definizione) al mercato dell'arte, incentivando l'idea per cui l'arte sia solo merda. Io ho fiducia e vedo in modo positivo l'arte. Ma non cio' che viene definita tale dal mercato dell'arte, ma quella che viene praticata quotidianamente nella vita da tutti.

 

Questo era un modo di rispondere 'pedante'. Un altro modo e' dire piu' praticamente che il definire come "autore" il fare artistico significa fare un favore a tutti quei figli di puttana che si sentiranno autorizzati ad utilizzare le vigenti leggi sul diritto d'autore per discriminare, brevettare e fare profitto sulla creativita'. Io non ritengo "originale" "l'Ulisse" di Joyce allo stesso modo di come non lo sono "la Gioconda" o "l'orinatio" di Duchamp. Sono tutte parti di processi ben piu' ampii del singolo oggetto, testo, quadro. Se qualcuno trovera' delle buone idee nei tuoi o nei miei messaggi e in seguito le utilizzera' in altra veste o le affinera' all'interno di un suo prodotto, potremo io o te chiedergli in seguito di usufruire sui proventi dei diritti d'autore sul suo prodotto? Io non ho nessuna intenzione di farlo perche' in questo momento mi ritengo un artista anziche' un autore. Uno che si ritenesse un autore invece avrebbe diritto ad avanzare la richiesta. Quando vorro' "vendere" le mie idee lo faro', ma cerchero' di fare in modo che venga pagato l'acquisto dell'idea e non la sua duplicazione. E' folle pensare di poter controllare la duplicazione delle idee e ancor di piu' di metterci una tassa sopra.

 

In un mio testo "Comunita' virtuali/opposizioni reali", pubblicato sulla rivista Flash Art nel 1992, ho scritto:

 

"...Di fatto cio' che viene pagato non e' piu', come nella societa' dello spettacolo, un prodotto un'informazione o una storia, nell'attuale societa' delle telecomunicazioni si paga per la 'circolazione' e per la messa in 'connessione' delle singole storie o informazioni. La tassa sul fare network e' l'ultimo degli espedienti con cui alcuni si sono arricchiti, altri hanno acquistato potere e con cui il sistema tenta costantemente di controllare o emarginare quelle esperienze devianti che mettono in atto pratiche di libera comunicazione"

 

e poi continuavo provocatoriamente:

 

"(...) fatevi pagare per ogni intervento [leggi messaggio o traccia telematica] che farete all'interno dei service informatici, in quanto la documentazione di questo evento (e dunque dei vostri interventi) sara' un 'potenziale' oggetto di scambio o di profitto nel sistema economico, artistico o in altri ambiti. Richiedete una percentuale sulle vendite."

 

E' chiaro che non chiedevo di adottare il copyright su ogni azione virtuale operata da un utente nelle reti telematiche, quanto il mettere in evidenza il paradosso e la trasformazione del sistema delle merci nella societa' delle telecomunicazioni. Bisogna prendere atto di cio', far esplodere i controsensi dell'attuale legislazione sul diritto d'autore e rivendicare una nuova definizione del fare arte.

 

>c) nel caso del mio primo intervento uno degli obiettivi (ma non il solo) era quello di sottolineare dei comportamenti non-coerenti (in particolare nei riguardi delle istituzioni e su questo tornero' piu' oltre),

 

Il mio fare artistico si e' da una decina di anni diviso in due livelli operativi: - stare 'fuori' dalle istituzioni e partecipare in modo dichiarato e apertamente a pratiche antagoniste. - stare 'dentro' alle istituzioni riportandovi sempre in modo esplicito le tracce di tali pratiche. Il secondo punto costringe all'equilibrismo piu' che alla non-coerenza. E' sicuramente piu' facile stare solo all'interno delle istituzioni lavorando per segnalarne delle modifiche e senza proporre la costruzione di pratiche alternative. E' sicuramente piu' coerente restare esclusivamente al di fuori delle istituzioni. Sara' che sono saggittario (mezzo uomo e mezzo cavallo), ascendente gemelli e che sono cuspide, ma da sempre ho cercato di far convivere due o piu' elementi apparentemente opposti. Se vuoi si puo' discutere sulla validita' di questa strategia, mentre il tuo discutere sulla coerenza e' per me solo una perdita di tempo.

 

>Di nuovo, Tommaso, se non

>ritieni che quel tuo comunicato stampa sul premio sia stato scritto con lo stile di chi vuole "vantarsi in pubblico", padrone di crederlo.

 

Personalmente mi costa 3.000.000 questo mio "vantarmi in pubblico" (se si esclude naturalmente tutti i rapporti con i potenziali collezionisti che uno perde nel momento in cui non propone oggetti "vendibili" in una galleria d'arte). Puo' darsi che sia talmente folle da essere pronto a perdere questa cifra per pura vanagloria, io preferisco pensare che questi soldi, come spero, vadano ad Isole nella Rete e che gli siano utili. Tu pero' sei libero di avere le tue opinioni ed io le rispetto. Semplicemente ritieniti responsabile del fatto che mi stai facendo perdere del tempo per il fatto che le esprimi pubblicamente e quindi mi costringi a risponderti, pubblicamente. Se dunque mi fa piacere spendere il mio tempo nel rispondere alle tue osservazioni sulle questioni artistiche, spero di non doverne sprecare altro sulle tue restanti opinioni.

 

>A) Il primo punto che intendo toccare e' il significato delle parole 'trasmissione' e 'comunicazione', etc..

>Dal mio punto di vista (ma vedere anche definizioni da vocabolario: una qualche convenzione va scelta) comunicare implica l'atto di emettere un segnale (messaggio). Il messaggio di per se' e' portatore di senso.

 

Mi sembra che tu sia addietro di almeno una cinquantina di anni. Ti avevo gia' accennato alle differenze possibili dalla teoria dell'informazione di Shannon, ma dato che insisti e porti avanti il tuo punto di vista, io invece ti riporto quello di U. Eco nel libro di M. Wolf "Teorie delle comunicazioni di massa". Mi scuso se sara' lungo e noioso, ma per chi non conoscesse certe cose puo' essere un ottimo momento per impararle.

 

Dapprima una descrizione della teoria di Shannon da parte di M. Wolf (inframezzate da citazioni di Escarpit e in certi casi sintetizzate da me stesso):

 

"[La teoria dell'informazione di Shannon] e' innanzi tutto una 'teoria del rendimento informazionale'(...) Tutti questi studi sono finalizzati a migliorare la velocita' di trasmissione dei messaggi, a diminuirne le distorsioni e le perdite di informazione, ad aumentare il rendimento complessivo del processo di trasmissione di informazione (...) La teoria matematica della comunicazione e' essenzialmente una teoria sulla 'trasmissione' ottimale dei messaggi (...) la funzionalita' di tale modello era data dal fatto che poneva l'attenzione sui fattori di disturbo della trasmissione di informazione, cioe' il problema del 'rumore' (...) cio' era rilevante per le finalita' di 'massima' trasmissione di informazione con il 'minimo' di distorsione e la massima economia di tempo e di energia (...) rispetto a cio' shannon definisce 'entropia' il grado di dispersione di informazione (dunque di rumore) in un atto comunicativo (...) di estremo rilievo e' l'aver fatto emergere la necessita' di realizzare una 'codificazione' ottimale che produca alti valori di fedelta' del canale (...) si trattava di trovare un codice che fosse allo stesso tempo economico e veloce e che non risentisse della presenza del rumore nel canale. Si evidenzia cosi' la presenza nello schema comunicativo di un altro elemento, il codice." (Mauro Wolf)

 

Quindi alcune delle critiche che le sono state mosse da U. Eco

 

"Perche' il destinatario possa comprendere il segnale nel modo esatto occorre che sia al momento dell'emissione, sia al momento della destinazione, si faccia riferimento a uno stesso codice. Il codice e' un sistema di regole che assegna a dati segnali un dato valore. Diciamo valore e non 'significato', perche' nel caso di un apparato omeostatico (rapporto tra due macchine) non si puo' dire che la macchina destinataria 'comprenda il significato' del segnale 'se non in senso metaforico): essa e' stata istruita a rispondere in un dato modo a una sollecitazione data. (...) Nei testi dei teorici dell'informazione vi e' una netta distinzione tra informazione come misura statistica della equiprobabilita' degli eventi alla fonte e significato. Shannon distingue il 'significato' di un messaggio, irrilevante per una teoria dell'informazione, dalla misura dell'informazione che si puo' ricevere quando un dato messaggio, fosse pure un singolo segnale elettrico, viene selezionato tra un insieme di messaggi 'equiprobabili'. Il problema del teorico dell'informazione sembra essere quello di 'mettere in codice' un messaggio secondo una regola (...). La teoria dell'informazione rappresenta un metodo di computo delle unita' di segnale trasmissibili e trasmesse e non un metodo di computo delle unita' di significato." (U. Eco) Escarpit nel 1976 fa in tal senso l'esempio del telegrafista il cui ruolo non e' quello di capire il significato del messaggio quanto di farlo arrivare a destinazione. La teoria dell'informazione e' attenta agli aspetti 'sintattici' anziche' a quelli propriamente comunicativi. Nell'ambito comunicativo infatti "...per il destinatario umano il messaggio acquista un significato e puo' avere molti sensi possibili(...) Il destinatario trae il 'senso' da attribuire al messaggio dal codice, non dal messaggio stesso (...); e' solo interagendo con il codice che il messaggio si riempie (...)." (U. Eco) "E' differente la diversa accezione del concetto di codice: sintassi interna della sequenza di segnali, vs. correlazione tra elementi di sistemi diversi. (...) Il trasferimento di informazione tra due poli contro la trasformazione da un sistema all'altro." (M. Wolf)

 

Spero che questa lunga citazione sia servita per capire che cio' che conta non e' tanto il riuscire a far arrivare un segnale cosi' com'e', ma far arrivare il 'senso' che tale segnale deve comunicare.

 

>Ora si puo' mettere in discussione il significato di 'comunicare senso' ma l'unica definizione 'obiettiva' e' quella che fa risalire tale atto alla comunicazione di un messaggio e dunque di una scelta (o zero o uno, quella di una sequenza, ...). Ogni altra definizione implica una scelta a priori sul 'tipo' di senso da prendere in considerazione e quindi un'azione arbitraria.

 

La comunicazione e' arbitraria. La scelta di un codice e' gia' un compromesso arbitrario ma necessario. E' talmente arbitraria da costringere non solo il ricevente, ma anche l'emittente a modificare preventivamente il proprio messaggio per adeguarlo a uno dei codici possibili di decodifica e questo significa consapevolezza, per quanto approssimata, dell'altro. Tu tratti la comunicazione come qualcosa di assoluto, come se esistesse una "verita'" della comunicazione, un codice di decodifica universale a cui tutti possano attingere senza equivoici e che dunque riduca le funzioni necessarie di emittente e ricevente a puro confronto del messaggio trasmesso con una tabella di codifica o decodifica. Non solo tale tabella non esiste, ma anche se esistesse tale atto non sarebbe comunque comunicazione. Codesto errore che gia' era stato evidenziato nel campo della semiotica e' stato elegantemente rilevato anche nel campo dell'intelligenza artificiale da Searle con l'esempio che si puo' sintetizzare in questo modo: un signore in una stanza deve rispondere a dei messaggi che gli arrivano attraverso una finestrella in cinese, lingua che lui non conosce. Per rispondere si limita ad usare una tabella che abbina a ogni frase possibile in cinese delle risposte possibili sempre in cinese. In tal modo riesce a sostenere una "conversazione" in cinese senza avere capito niente di cio' che gli e' stato "comunicato" e dunque senza che vi sia stata un'effettiva comunicazione tra lui e le persone che gli passavano le domande in cinese. Tale esempio e' stato spesso usato per dimostrare che la macchina di Turing non comprende e dunque e' diversa dalla mente umana.

 

>Conseguenze: Bill Gates comunica comunque senso. La scelta del segno del 'senso' e' arbitraria -> arbitrario in questo contesto sono le considerazioni sull'aggiunta e sulla sottrazione di senso (cio' non implica che per me il senso 'buono' non possa essere lo stesso considerato 'buono' da Tozzi e, per esempio, differente da quello sotteso alle azioni di Bill Gates).

 

Evidentemente non avevi capito la mia affermazione. Bill Gates non comunica senso non perche' il senso che comunica e' negativo, ma perche' le strategie della Microsoft premono nella direzione di produrre interfacce della comunicazione che rendono l'utente una pura macchinetta che usa i computer come il signore per rispondere al cinese. Le interfacce, cosi' come la legislazione che vi viene affiancata, promossa dalla microsoft tende verso un utente passivo, che usa le reti per vagarvi da spettatore anziche' da attore della comunicazione. Uno spettatore che in quanto tale non comprende il senso di cio' che gli scorre davanti agli occhi, sebbene sia in grado di 'rispondervi interattivamente'. In tal senso Bill Gates sottrae senso, in quanto sottrae spazio, attraverso i suoi monopoli, all'esistenza di interfacce 'diverse', 'altre' della comunicazione. Interfacce che vedono come loro priorita' la trasmissione di senso tra le persone, anziche' la difesa dei profitti della Microsoft.

 

>in ogni caso la scelta della semantica e' arbitraria (quanto lo e' il significato attribuito ad ogni messaggio che produciamo) e se non si giunge a definire una convenzione ed interfaccie capaci di decodificare il messaggio sulla base di tale convenzione allora siamo nei guai.

 

Il processo di definizione di un interfaccia deve essere un continuum coevolutivo tra le parti che useranno tale interfaccia, in un continuo riassestamento e stipulamento di accordi possibili. Deve in ogni caso essere un processo mutuale. Tu, come dicevo prima, sembri cercare una panacea convenzionale, in grado di funzionare meccanicamente e di per se immortale. Le interfacce della comunicazione si deteriorano, o meglio evolvono e mutano costantemente.

 

>Comunicazione interattiva e'

>dunque la capacita' di emettere messaggi a seguito di ricezioni.

 

Questo e' il livello di interattivita' passiva che spiegavo sopra in relazione a Bill Gates. Interattivita' senza porsi il problema della comprensione del senso.

 

>Una risposta rapida implica poca 'riflessione' (elaborazione), e' un'atto quasi istintuale (tipico degli utenti dei videogiochi, o di chi non legge attentamente un messaggio - anche televisivo -perche' il messaggio serve solo come trigger). Una vera comunicazione interattiva richiede dunque 'ponderazione'. I mass-media unidirezionali tendono a non far chiudere il cerchio della riflessione ma a favorire una risposta istintuale, che risulta cosi' essere il primo segno di dipendenza, di scarsa plasticita' neuronale.

 

Io, mi sbagliero', ma ho la sensazione che tu ragioni seguendo le deduzioni e i limiti che emergono dalla simulazione del sistema neuronale su un computer, piu' che analizzando realmente il modo in cui puo' funzionare la mente umana. Prima riconduci la comunicazione a una trasmissione di 1 e 0. Poi affermi che la comunicazione ha bisogno di tempo e qui forse e' perche' ti sei scontrato con la lentezza di calcolo delle macchine, anche quelle che lavorano in parallelo, se si devono confrontare sulla rapidita' con cui la mente risolve situazioni banali (ad esempio come scegliere quale sia la strada giusta da prendere per aggirare un ostacolo). Apprendere il senso di un segnale e comportarsi di conseguenza e' per la mente umana un atto immediato e non per questo istintuale se per istintuale intendi il non aver afferrato il senso del messaggio. Il problema della comunicazione non e' nella velocita' elaborativa, quello e' un problema delle macchine e che lasciamo alle macchine, quanto nel riuscire a creare un contesto che fornisca gli strumenti ad ogni ente della comunicazione adatti non solo a ricevere ed emettere messaggi, ma a fare cio' attraverso un confronto e una comprensione tra l'identita' dell'emittente e quella del ricevente all'interno di un determinato contesto. Se tu cerchi soluzioni in modo meccanico avrai risposte esclusivamente di quel tipo.

 

>Partendo dal pressupposto che l'atto creativo, dunque "l'arte" (tanto per intenderci) sono parte del mondo della comunicazione interattiva. Qual'e' il ruolo (se ne ha uno) dell'estetica all'interno di questo processo, qual'e' il significato di anti-estetico all'interno di questo processo?

 

Dato che cio' parte da una citazione di Perniola mi sembra corretto fare rispondere a lui attraverso una sua nuova citazione in cui cio' che viene definito "anti-estetico" puo' essere individuato nel cosiddetto "pensiero della differenza":

 

"Che rapporto stabilire tra la tradizione estetica del Novecento e il pensiero della differenza, e perché questo costituisce un problema? Costituisce un problema perché l’estetica del novecento vista nel suo complesso e anche considerata nel suo aspetto generalissimo è sostanzialmente un pensiero orientato verso la conciliazione, verso l’armonia, se volessimo parlare di un’estetico al neutro, così come si parla di un politico al neutro direi che il carattere essenziale dell’estetico è una ricerca dell’aspetto conciliativo, di un elemento di conciliazione, di armonia. (...)

Quello che io ho chiamato il pensiero della differenza invece va proprio contro questo assunto fondamentale. (...)

Nasce quindi essenzialmente questo problema, ci si trova di fronte a questo paradosso: la parola estetica letteralmente rimanda al termine greco eistesis che vuol dire sensazione e che dovrebbe essere quella parte della filosofia che è attenta ai problemi della sensazione, è attenta ai problemi del sentire, del sentimento. Paradossalmente tuttavia, fintanto che si rimane nell’ambito dell’estetica tradizionale, questro sentire è un sentire che va sempre nella direzione della conciliazione dell’ordine dell’armonia, e non va invece nella direzione opposta, nella direzione di qualcosa di nuovo, di esperienze nuove, alternative come quelle descritte da Freud, come quelle a cui fa riferimento la filosofia heideggeriana. Quindi nasce questo paradosso, che da un lato nel Novecento noi ci troviamo sempre più esposti a tipi di esperienze che come quelle delle malattie mentali, della psicosi e della nevrosi studiate da Freud o a esperienze come quelle del sentire infantile, oppure esperienze che riguardano il sentire di cui si occupa l’antropologia e la etnologia, quello dei cosiddetti popoli primitivi. Tutti argomenti che sono per altro al centro dell’interesse delle arti, della letteratura e della musica fin dal primo Novecento, e che costituiscono un elemento, un aspetto essenziale dell’esperienza del Novecento. C’è una specie di distacco, di iato, tra la riflessione estetica tradizionale e l’esperienza del Novecento. A mio avviso i veri interpreti dell’esperienza del Novecento non sono tanto gli estetici, ma sono appunto i pensatori della differenza di cui Nietszche, Freud e Heidegger costituiscono i riferimenti."

 

>Concordo sulla pericolosita' di assecondare un dualismo corpo-cervello: la macchina e' un tutt'uno. Mi sembra pero' strano che non si sia in grado di accettare le differenze fisiologiche e funzionali esistenti all'interno della nostra macchina (per esempio cosa e' sensore e cosa e' unita' di elaborazione, oppure i vari livelli di elaborazione su cui si basa il funzionamento dello stesso cervello).

 

Per il semplice fatto che il confine tra sensore e unita' di elaborazione non e' fisso. Lo e' solo nelle simulazioni computazionali.

 

>Mi sembra altresi' pericoloso affermare che la mente non e' una macchina. Francamente mi chiedo quali siano le eventuali basi oggettive di una tale affermazione.

 

Tu sebbene in una parte del tuo messaggio che non ho riportato dichiari di differenziarti dalla versione "forte" dell'I.A. ci ricaschi continuamente. Di seguito ti cito la tabella di possibilita' che Penrose riporta nel suo libro "Ombre della mente" come sintesi delle diverse posizioni possibili sulla mente. La prima e' appunto quella che viene definita come la posizione "forte" dell'intelligenza artificiale ed e' anche l'unica a sostenere che la mente sia una macchina (e dunque possa essere simulata computazionalmente):

 

a) Ogni pensiero e' computo; in particolare, il senso della consapevolezza e' suscitato puramente e semplicemente dall'esecuzione di computi appropriati.

 

b) La consapevolezza e' una caratteristica dell'azione fisica del cervello; e mentre qualsiasi azione fisica puo' essere simulata computazionalmente, la simulazione computazionale non puo' di per se suscitare consapevolezza.

 

c) Un'appropriata azione fisica del cervello suscita la consapevolezza, ma questa azione fisica non puo' neppure essere adeguatamente simulata computazionalmente.

 

d) La consapevolezza non puo' essere spiegata in termini fisici, computazionali o di altro tipo scientifico.

 

Penrose propende verso le posizioni riassunte al punto (c) e non mi chiedere spiegazioni perche' sarebbe veramente eccessivo per questa discussione e dunque ti invito a leggerti il libro o a seguirti i corsi della prof.ssa Dalla Chiara a Filosofia a Firenze, che su tali questioni e' particolarmente esperta.

 

>Dunque e' ovvio che non basta la manipolazione dei simboli, che non bisogna porre attenzione al solo software, che non e' possibile pensare in termini di dualita' mente-cervello!

 

E queste sono cose su cui non ho mai palesato dubbi.

 

>E ancora, forse il

>pensiero non e' solo manipolazione simbolica ma questo non implica che il nostro 'cervello' non sia una macchina!

 

Prima hai detto che la mente e' una macchina, questo e' diverso dal dire che il cervello e' una macchina? Se e' uguale la risposta e' la medesima di sopra, se e' diverso stai rientrando nel dualismo mente-corpo.

 

>Una macchina comunque complessa risulta un oggetto 'determinista' (almeno nell'accezione scientifica del XVII secolo) solo se ci si dimentica dell'esistenza delle fluttuazioni e se ci si dimentica della nostra incapacita' di descrivere microscopicamente sistemi comunque complessi:

 

Se ti leggi l'articolo di S. Kauffman "Anticaos ed evoluzione biologica" leggerai affermazioni come: "alcune proprieta' dei sistemi complessi stanno cominciando a chiarirsi(...): la capacita' del caos deterministico di generare aleatorieta'", oppure "una caratteristica fondamentale di una rete booleana stocastica e' che essa possiede un numero finito di stati. (...) Poiche' il suo comportamento e' deterministico il sistema...", etc etc.

 

>la nostra ignoranza

>e' la base di cio' che viene definito 'libero arbitrio'

 

Io pensavo invece che fosse la nostra liberta' tale base.

 

>F) Ancora, mi sembra pericoloso affermare che "i comportamenti emergono spontaneamente all'interno dei sistemi complessi",

 

Vedi C. Langton nell'introduzione agli atti del convegno sulla Vita Artificiale (1987) oppure il libro "Parallel Distributed Processing" di MC Lelland e Ruhmelart, o tanti altri testi sulle reti neurali.

 

>E) Intendiamoci sul termine nanotecnologie, io ho lavorato in questo settore ma per chi lavora nell'inorganico nanotecnologia e' sinonimo di fabbricazione su scala nanometrica (in generale di componenti elettronici), cosa si intente in chiave biologica ? Manipolazioni effettuate su scala nanometrica, lo studio di oggetti di dimensione nanometrica?

 

Ad esempio artefatti di misure nanometriche usati per eseguire funzioni particolari all'interno o in coevoluzione con un organismo. In riguardo vedi il testo "Engines of creation" di E. Drexler. Nel caso dei microtuboli sono stati effettuati studi su scala nanometrica.

 

bye

Tommaso Tozzi